Non è più solo una questione sarda

I dati che provengono dal crollo del sistema produttivo sardo degli ultimi sette-otto anni, devono riaprire una seria ed approfondita discussione sul modello di sviluppo economico in vigore in Europa e sul destino che appare riservato alle sue aree periferiche. Dal 2004 al 2011, leggiamo nei dati Istat,” l’industria sarda ha perso 30.496 occupati, di cui 14.266 nell’industria in senso stretto e 16.230 nelle costruzioni. In agricoltura, sempre nello stesso periodo, il numero degli occupati è sceso di 5.266 unità. A questi dati devono aggiungersi 20.000 lavoratori circa in cassa integrazione”. Dati che denotano un arretramento economico, sociale ed umano preoccupante ed inaccettabile.

Sembrano davvero appartenere ad un lontano passato gli anni d’oro della “Rinascita” e dell’industrializzazione dell’isola, che avevano, per la prima volta nella sua storia, inserito la Sardegna in un contesto di sviluppo nazionale e aperto le sue coste al turismo mondiale. Erano anni in cui il Pil sardo cresceva insieme all’occupazione, i giovani si aprivano alla scolarizzazione di massa e universitaria, e la mobilità sociale consentiva ai membri dei ceti meno abbienti di conquistare nuovi ed agognati livelli di benessere. Certo, non si gettavano nemmeno allora, i germi di un solido sistema di sviluppo endogeno; ma una classe politica progressista e coraggiosa aveva comunque provato ad invertire il destino di un popolo da sempre escluso dalla Storia, come disse Emilio Lussu, suo nobile figlio, in un celebre discorso parlamentare.

Da qualche decennio, invece, la chiusura a catena di fabbriche, la ripresa del fenomeno dell’emigrazione, l’aumento della povertà assoluta e relativa, i livelli abnormi di abbandoni scolastici, sembrano avere riportato indietro le lancette dell’orologio, e riproposto i termini di una nuova “questione sarda” in pieno XXI secolo. Ma le analogie si fermano qui. Oggi, le cose si pongono diversamente: condizioni di desertificazione e di marginalizzazione economica non sono visibili solo in Sardegna o nel meridione d’Italia, ma vanno ad interessare progressivamente tutta l’Europa mediterranea. Alcune statistiche pubblicate da Eurostat sono significative di ciò che sta avvenendo, ovvero un processo di “mezzogiornificazione” dei paesi periferici del continente: dal 2007 al 2012 il Portogallo avrà perso 300 mila posti di lavoro netti, la Grecia oltre 400 mila, l’Italia più di mezzo milione, la Spagna oltre due milioni. Nello stesso periodo, invece, la Germania avrà aumentato di un milione e mezzo il suo numero di occupati.

Questo “spread dell’occupazione e della crescita” all’interno dell’Europa, non è dovuto al solo debito pubblico o a quello delle riforme, come vorrebbero farci credere gli economisti di regime; ma è conseguenza di una unificazione monetaria fatta ad immagine e somiglianza del marco tedesco, che promuove non solo una progressiva concentrazione delle attività produttive nelle aree forti, ma sopratutto, una concentrazione della proprietà e del controllo dei capitali. Sempre più impiccati alla corda del rigore finanziario e del fiscal compact, le imprese del Sud Europa saranno assorbite, insieme ai loro capitali, dal sistema tedesco egemone, mentre sopravvivranno solo quelle acquisite o che operano in regime di subfornitura. Come scrive Emiliano Brancaccio nel saggio “L’austerità è di destra e sta distruggendo l’Europa”, il rischio è che “le periferie dell’eurozona resteranno popolate da azionisti di minoranza (le teste pensanti saranno fuori) e di lavoratori a basso costo e dequalificati”. Insomma, siamo passati dalla piccola “questione sarda” alla grande “questione tedesco-europea”.

Vi è da chiedersi quale risposta di politica economica daranno il PD e la sinistra italiana nei prossimi confronti elettorali, davanti a questo scenario così gratificante per i poteri forti (banche e multinazionali), ma così penalizzante per i lavoratori e i popoli mediterranei. Perché non è un caso (tutt’altro) che Mario Monti piaccia così tanto ai tedeschi e all’elite economica globale che governa il mondo. Se non comprendiamo che le vertenze Alcoa, Sulcis, Portotorres, Ottana, non sono solo vertenze sarde, ma molto di più, difficilmente faremo un passo avanti per uscire dalla crisi.

5 Ottobre 2012