Chi evade il canone Rai ha vita facile. La Corte dei conti spiega perché

La battaglia per ottenere i dati dai rivenditori di televisori e dai Comuni, le lettere "minacciose" (che non sortiscono grandi risultati) e bar, alberghi e ristoranti che non pagano: ecco perché l'Italia se ne frega del

La Rai, Radiotelevisione italiana nel 2012 ha accusato perdite per 245,7 milioni di euro. La gigantesca struttura della tv di Stato è finita sotto la lente della Corte dei conti che ne ha analizzato criticità e prospettive. Prima notizia: il segno rosso sui bilanci è troppo preponderante rispetto ai guadagni. La Corte sottolinea lo «sbilancio negativo tra ricavi e costi della produzione, nella misura di 23,3 milioni di euro (2011) e di 215 milioni di euro (2012), segnale preoccupante per la situazione economico-patrimoniale e finanziaria della Società di proprietà pubblica». Sul versante dei ricavi, il pagamento del canone radiotelevisivo rappresenta circa il 60,5% (il 68% nel 2012) del totale delle entrate aziendali, contro circa il 31,3% (26% nel 2012) della pubblicità e circa l’8,2 % (il 6% nel 2012) degli altri ricavi. Dal canone Rai si potrebbero tirare fuori molti più quattrini. Ma non accade. «L’entrata da canone – scrive la magistratura contabile – è rimasta notevolmente compromessa dalle crescenti dimensioni dell’evasione, stimata nel biennio nell’ordine del 27% circa, superiore per quasi 19 punti percentuali rispetto alla media europea». Indubbiamente a inguaiare la Rai ci si è messo anche il calo delle entrate della pubblicità (965 milioni di euro nel 2011 e 745,3 milioni euro nell’esercizio successivo». Tuttavia la questione del canone è centrale (insieme a sprechi e costo di delle fiction e  grandi spettacoli d’intrattenimento come Sanremo).

Come evitare l’evasione? Partendo dai televisori acquistati. Servono, si legge nel rapporto «efficaci interventi finalizzati a contrastare l’evasione dal pagamento del canone, non adottati o anche solo pianificati nel corso del biennio in rassegna, in particolare per il canone speciale, riscosso direttamente dalla società». Per farlo bisogna partire dalla base, ovvero acquisire i nominativi dei potenziali possessori di apparecchi televisivi. «Ad avviso della Rai – è scritto nel dossier – tali nominativi possono essere ricavati consultando gli archivi anagrafici in possesso dei Comuni, alcuni dei quali, come evidenzia la stessa società, oppongono un netto rifiuto, adducendo argomentazioni fondate sul rispetto dei vincoli posti dalla legislazione in materia anagrafica e sulla disciplina della privacy. Per contrastare tali obiezioni, la Rai si è munita di pareri favorevoli da parte del ministero dell’Interno e del Garante per la protezione dei dati personali». Ciononostante, numerosi Comuni, secondo l’Azienda, negano la fornitura dei dati contenuti nei loro archivi, sulla base della mancanza di una precisa disposizione di legge che preveda un esplicito obbligo in tal senso. In passato, questi dati personali potevano essere ricavati dagli elenchi telefonici ma sull’argomento c’è una battaglia giudiziaria. Il Garante della Privacy ha ritenuto non legittimato lo “Sportello Abbonamenti alla Televisione” (Sat) – e per suo conto la Rai – all’utilizzazione dei dati provenienti da archivi privati, anche se acquisiti con il consenso degli interessati. A viale Mazzini è stato vietato di raccogliere i dati personali di coloro che acquistano apparecchi televisivi presso i rivenditori e di trattare ulteriormente i dati già ottenuti. Nel 2010 in Appello questa disposizione è stata riformata, annullando il provvedimento con cui il Garante aveva vietato raccolta e trattamento dei dati personali comunicati dai rivenditori di apparecchi radiotelevisivi. È iniziato il ricorso in Cassazione. Attendendo il passato in giudicato della sentenza d’appello la Rai ha proposto all’Agenzia delle Entrate (il cui assenso è necessario, in quanto è solo quest’ultima a poter raccogliere i dati dai rivenditori), di riattivare la collaborazione con i rivenditori. Ma il Fisco ha dato l’alt e vuole attendere che la vicenda giudiziaria sia definitivamente chiusa.

Milioni di lettere. C’è un’altra duplice attività che la Rai conduce per recuperare gli evasori. Una «azione di persuasione nei confronti dei soggetti individuati come potenziali evasori». Si tratta dell’invio di lettere, firmate dal Direttore della Direzione Amministrazione Abbonamenti, che espongono il timbro dell’Agenzia delle Entrate, con le quali si invitano i potenziali possessori di apparecchi televisivi a regolarizzare la loro posizione. Ogni anno ne vengono spedite circa 9 milioni. Qualcuno, intimorito dalla missiva, paga. Poi ci sono le visite – rare, a dire il vero – degli incaricati Rai presso il domicilio di coloro che non risultano intestatari di abbonamento. Le iniziative consentono, ogni anno, secondo la Rai, il pagamento del canone da parte di circa 400mila utenti. Solo una volta che un abbonato inizia a pagare può essere poi eventualmente iscritto a ruolo e finire, in caso di morosità, nelle mani della temutissima Equitalia, il riscossore di Stato. Per questo, l’adagio ben conosciuto dagli evasori del canone «l’importante è non farsi acchiappare la prima volta, altrimenti devi pagare sempre» è purtroppo vero.

I numeri. Rispetto all’evasione del canone ordinario, le potenziali utenze televisive non paganti sono pari a 6.027.399 e, cioè, al 26,51% delle famiglie. Si tratta di una media estremamente elevata ove raffrontata con quella europea che si attesta intorno all’8%.n L’evasione è differenziata nel territorio: nel nord Italia è stimata in 2.539.042 utenze (23,13%), nel centro 834.593 (19,42%), nel sud 1.665.558 (33,83%) e nelle Isole 988.206 (38,95%). C’è poi l’evasione del cosiddetto “canone speciale” quello che gli esercizi commerciali come bar, ristoranti e alberghi devono pagare alla Rai. C’è tantissima evasione anche in questo comparto. Il mercato potenziale complessivo di riferimento è di circa 1.350.000 “esercizi”. Al momento la Rai ne trae circa 70 milioni, potrebbe ottenere – secondo proiezioni economiche – quasi il triplo. «La valutazione dell’Azienda – scrive la Corte dei conti –  è che l’evasione dal pagamento dei canoni speciali sia valutabile nella misura del 65-70% dei citati 1.000.000 “esercizi”, corrispondenti circa a 100 milioni di euro all’anno».
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Ciro Pellegrino, 12 Febbraio 2014