Libertà, cozze e vongole

Max è detenuto nel carcere di Alghero, ma da qualche anno lavora in un ristorante in città. Lo fa grazie alla passione di due insegnanti dell’Istituto Alberghiero. E alla sua voglia di riscatto

Quando Meherez ha sentito il giudice pronunciare la condanna ha pensato: è la fine; ma non gli sarebbe servito molto tempo per capire che, invece, era solo l’inizio. «Avevo trentun anni e ho visto la mia vita sparire in un minuto, perché in un minuto può cambiare tutto», racconta oggi. Del resto, sedici anni in carcere vanno passati: sono quasi seimila giorni e se li pensi contemporaneamente tutti insieme nella tua testa è possibile che questa esploda o quantomeno non torni più la stessa. «Una volta dentro, però, ho realizzato che l’unica cosa che mi rimaneva da fare era vivere». Che, detta così, sembra facile. «Se ti fermi a pensare, non ce la fai. Quando sei dentro la tua camera, devi curare ogni minimo particolare, anche l’intonaco del muro, perché quella è la tua casa. Sei in un altro mondo, ma è il tuo mondo», dice. Poi mi chiede: «Capisci?». E io rispondo: «Sì», ma so che non è vero e lo sa anche lui.

«Ho capito che dovevo affrontare la mia pena nel miglior modo possibile»

Meherez, finora, di anni ne ha scontati dieci. Cinque a Pisa, poi sei mesi a Porto Azzurro, sull’Isola d’Elba. Da subito ha cominciato a lavorare come cuoco all’interno degli istituti: «Ho capito che dovevo affrontare la mia pena nel miglior modo possibile». E quando vede la possibilità di essere trasferito ad Alghero, per frequentare la scuola alberghiera, fa subito richiesta.

Nella scuola del carcere di Alghero, lavorano due insegnanti: si chiamano Angela Vaudo e Pinuccia Patorno. Le due professoresse hanno avuto, qualche mese prima, una splendida intuizione: far frequentare degli stage ai detenuti più meritevoli e pronti al reinserimento nella società. Per Max – così Meherez si fa chiamare, forse perché è più semplice, forse perché non è più lo stesso – è la prima opportunità di evadere dalle mura che lo costringono ormai da sette anni. Le due insegnanti si mettono alla ricerca di ristoratori che vogliano accogliere qualcuno dei loro studenti: bussano a tante porte, parlano con molti gestori, ma i no piovono come chicchi di grandine: siamo a posto così, chi me lo fa fare, assolutamente no. Detenuto e tunisino, praticamente appena un gradino sotto il Diavolo in persona; eppure, alla fine, qualcuno accetta: del resto, Max parla bene l’italiano, benissimo il francese, caratteristica rara, e ha tanta voglia di lavorare, caratteristica rarissima. Ed è così che Meherez, dopo sette anni, esce dal carcere.

«Quando uscivo, e guardavo qualcosa, mi accorgevo che mi era mancato tutto, anche le cose più semplici. Mi ero accorto di non essere più una persona normale»

Se oggi gli chiedete cos’ha provato in quel momento, tre anni fa, vi risponderà così: «Me lo ricorderò per sempre. Era estate. Non sapevo più camminare. Attraversare la strada era un’impresa. Mi era mancato tutto, anche le cose più semplici. Mi ero accorto di non essere più una persona normale. Se tu cammini per la strada e guardi le cose, per te sono cose qualsiasi, le dai per scontate, per me invece era tutto nuovo: mi prendevo il tempo per guardare le macchine, le persone. Facevo tutto al rallentatore, perché per me era tutto troppo veloce».

Il ristorante in cui Max comincia a lavorare si trova nel centro storico, sui bastioni. Quando si affaccia per la prima volta e vede il mare, Alghero, il porto, lo spazio, ha come uno sbandamento: «Mi sono sentito male. Era tutto così bello, troppo bello. Troppo grande. E dire che a me il mare piace, vengo dalla Tunisia. Ma dopo sette anni di carcere non ero più abituato al mondo».

Grazie a scuola e carcere – e alle sue insegnanti – frequenta tre anni di stage. Ogni estate esce per andare a lavorare: ha un percorso prestabilito, sempre le stesse vie, all’andate e al ritorno, da percorrere in massimo venti minuti. Ma è già qualcosa.

«Il ristorante è sempre pieno, ed è meglio così. Non ci si annoia e il tempo passa veloce. Non come in carcere»

Dopo lo stage, Max trova lavoro stagionale in un altro ristorante di Alghero: «Sono stato fortunato – dice – sia dove lavoravo prima, che dove lavoro adesso. I miei colleghi sono tutti bravissime persone, dal primo all’ultimo. Il ristorante è sempre pieno, ed è meglio così. Non ci si annoia, sicuramente, e il tempo passa veloce. Non come in carcere».

Quando pensa al passato, quando pensa al carcere, gli occhi di Max si fanno neri come il mare di notte: «È stato difficile. Spesso ci si ritrova in camera con persone difficili, con problemi sociali e mentali, gente aggressiva, esseri umani che non sanno neanche più di esistere; c’è chi pensa di impiccarsi, c’è chi ci riesce, e tu devi pensare a come passare le giornate a fianco a loro. Ognuno reagisce a modo suo e non sai mai come potrebbe reagire chi hai vicino e neanche come potresti reagire tu. Se ti capita di fare amicizia con qualcuno, sai che quello uscirà prima o dopo di te, e che quindi vi dimenticherete a vicenda, prima o poi. Questo ti fa capire che devi affrontare la questione da solo».

«Quando non sarò più un detenuto, mi piacerebbe restare qui, regolarizzare la mia posizione, trovare una casa. Avere dei figli»

E la questione, Max, non l’ha ancora del tutto risolta: «Ancora non mi sento come gli altri, non mi sento alla pari. Quando qualcuno che io conosco viene a sapere che sono stato in carcere, e che ci sono tutt’ora, in lui cambia qualcosa e io me ne accorgo. Lo capisco. Anche a lavoro non è stato facile, soprattutto all’inizio. Uno il detenuto lo accetta, ma non sarà mai come gli altri colleghi: non mi veniva mai chiesto tanto, troppo, per la paura delle mie risposte, delle mie reazioni. Ma ho imparato a ingoiare i rospi: se non impari a farlo in galera…»

Se pensa al futuro, invece, il suo sguardo si fa forte e determinato. La vita in carcere è difficile, ma fuori non lo è di meno: «Tutti abbiamo problemi: detenuti, insegnanti, camerieri, presidenti. Tutti. In questi anni ad Alghero ho trovato molte persone gentili: le mie professoresse, che mi hanno cambiato la vita, i miei datori di lavoro, i miei colleghi. Quando non sarò più un detenuto, mi piacerebbe restare qui, regolarizzare la mia posizione, trovare una casa. Oggi, se invidio qualcuno, è chi ha dei figli che lo aspettano a casa: lui è il più ricco di tutti. Tempo, ci vuole tempo».

Ignazio Caruso, 29 Agosto 2017