Solo Andata, il nuovo disco di Mattia Uldanck – Intervista al rapper “normale”

Il rapper algherese ci parla del suo nuovo disco "Solo Andata", che sarà presentato sabato 2 agosto alla "Baia dei Venti"

Arrivo qualche minuto in ritardo, ma lui è già là che mi aspetta. Un abbraccio e ci sediamo. Spalle larghe, occhi luminosi e faccia pulita Mattia – classe 1990 – come tutte le persone dotate di un bel sorriso, non disdegna affatto di mostrare il suo brio a chi gli sta davanti. Ordiniamo un caffè, parliamo dell’università. Siamo stati colleghi per un periodo. Mi racconta di un professore con il quale anche io ho avuto a che fare: un rotondo e rubicondo studioso di musica medievale che non ha perso l’abitudine di concludere le sue lezioni con un «Finis!» dal tono grave, e sbattendo con forza il tacco della sua scarpa sul pavimento come per schiacciare uno scarafaggio e risvegliare qualche studente assopito.

«Della vita in facoltà amo la possibilità di vedere e conoscere altri ragazzi. Ho il mio quadernino, sul quale appunto ogni cosa, e mi affascina vedere persone, osservare le loro vite che mi passano davanti», dice. Mattia ne ha fatta di strada, e ne sta facendo ancora. Sembrano passate ere geologiche dal suo «primo live al Betty Boop» (noto circolo culturale algherese, andato per la maggiore tra il 2008 e il 2009 e nel quale in molti hanno perso svariati anni di vita ndr), quando, appena terminato il soundcheck, qualche inquilino nelle vicinanze decise di manifestare il proprio dissenso gettando un secc

hio d’acqua dalla piccola finestra – meglio grata – che stava sopra il palco, centrandolo in pieno. «Non farò mai più il rapper» pensò.

Deve avere, evidentemente, cambiato idea; siamo qua per parlare del suo nuovo – secondo – album, Solo Andata, uscito il 21 luglio e disponibile in copia fisica presso un lungo elenco di attività commerciali algheresi (consultabile sulla sua pagina Facebook), oltre che in formato digitale su iTunesGoogle PlayAmazon e Spotify.

Un disco da camera, anzi da cameretta. Interamente autoprodotto.

Sì. Ho curato personalmente l’intero lavoro. La parte grafica è stata realizzata da Elias Rosato, aka Bill Proud, grafico e Dj. Un draghetto. Poi in un pezzo – Bussola – Antonio Fortunato ha messo qualche schitarrata delle sue, aggiungendo quel tocco in più. Per la stampa, invece, mi sono rivolto a una società esterna. Ci tengo a precisare che non sono iscritto alla SIAE. Non mi fa impazzire.

Volevo complimentarmi per il massiccio uso del Rhodes, di cui sono un grande fan.

In effetti, rispetto al vecchio disco, ho cambiato non di poco l’impronta musicale. Sono andato dritto sul soul. Ho cercato il giusto compromesso tra le vecchie sonorità dell’hip-hop americano e uno stile contemporaneo.

E non hai disdegnato qualche sentiero melodico.

Canto da cani (ride ndr). Ho giocato molto sulle armonizzazioni, semplicemente perché non mi sentivo ancora pronto. Diciamo che più che cantare, canticchio. Ma non dirlo a nessuno.

Comunque “entrano in testa”, come si dice in sala prove.

Questo mi fa piacere. Era una cosa nuova rispetto al mio primo album Resoconti Di Viaggio, una sorta di sa

lto nel buio.

Ho notato che il disco segue un proprio percorso a tappe. Si parte dalla stazione in Binari, fino ad arrivare alla partenza ne La Sorte Del Veliero. Da cosa nasce l’esigenza del viaggio?

Come tanti giovani ho pensato di partire in Erasmus. Ho fatto domanda per la Francia, a Saint Denis: il capoluogo dell’Île de la Réunion, regione francese. L’ho cercata su Google Maps: mare, mare ovunque. Figata! Solo un piccolo problema: non era mare, ma oceano. Indiano, precisamente. La Réunion è un’isola a est del Madagascar.

Non proprio l’Asinara, diciamo.

Non proprio. Mi sono un po’ cagato sotto. Ho fatto le mie valutazioni. Mi sono accorto di avere qualcosa da dare. Qui. Viaggiare è bello, ma non dev’essere un’azione fine a sé stessa, né tantomeno un punto di arrivo.

Partire per restare. In Italia, in Sardegna, ad Alghero. Un po’ strano, per un ragazzo di una generazione ossessionata dal viaggio.

Dove andare? Io non mi sento di consigliare di andare via. Restiamo, invece. Restiamo e combattiamo. Cerchiamo di costruire qualcosa qua, penso che abbiamo più o meno tutto a disposizione.

Un viaggio però lo fai: dentro di te. 

Il viaggio interiore è l’unico dal quale non si può tornare indietro.

E non c’è una meta.

Assolutamente no. È quello il bello.

Quanto ottimismo, però. Forse troppo.

Sento che c’è fermento, anche e soprattutto nella nostra generazione. La sparo grossa: siamo di fronte a uno snodo importante per tutta l’umanità. C’è bisogno di fiducia.

Le Ali Della Farfalla si chiude con qualcosa di molto simile a un urlo di battaglia: “Arriviamo”, dici. Io non me la sento di garantire anche per gli altri. Potrei dire, al massimo: “Arrivo”.

Prendilo, allora, più come un’esortazione. Se non “arriviamo”, almeno “andiamo”. Ci sono tante persone, tante nuove e giovani realtà, anche nella nostra città. Magari come in altre mille, ma comunque ci sono.

Potrà sembrare molto provinciale, ma per i molti che ti ascoltano, penso sia bello poter sentire i propri luoghi protagonisti: la stazione di Sassari, ad esempio. Niente campanilismo, ma neanche il fenomeno opposto: che so, esterofilia.

Sono d’accordo. Penso sia più una soggezione nostra che ci porta ad avere difficoltà nel parlare dei nostri luoghi nella nostra arte. Se ci pensiamo bene, però, suonano più strani a noi che agli altri.

Secondo me, Alghero, per mentalità endemica, non stimola l’iniziativa giovanile.

In parte è vero. Penso, però, che sia proprio l’assenza di un contesto favorevole, la mancanza di una strada facile, in discesa, che ci porti a creare così tanto. In quest’assenza di prospettive vedo la vera sfida. Ed è dalle crisi e dalle situazioni più difficili che, come esseri umani, ci esaltiamo.

(A proposito di esaltazione: ordiniamo due birre, ndr).

Parliamo della birretta: quanti sogni e progetti annegano nei profondi bicchieri di provincia.

In Mad Times parlo proprio di questo. Il pezzo nasce con l’intento di essere leggero e goliardico, ma si rivela tutt’altro. Non è il bere che ti frega, quanto l’abitudine. Esci e vai a bere, senza un perché. Un rituale per certi versi stupido: sono sempre “le solite storie, i soliti hangover” che si ripetono, notte dopo notte. Ogni tanto, bisogna saper stare a casa.

Abbiamo tutti avuto, penso, un periodo in cui stare a casa risultava molto difficile.

Il pezzo, alla fine, rievoca proprio la nausea di quei giorni.

Quanto tempo perso.

Diciamo che è la risposta sbagliata dell’assenza di prospettiva di cui parlavamo prima. Non c’è niente da fare, non facciamo niente.

(Ordiniamo altre due birre, ndr).

E invece pare che la scena hip-hop algherese sia in fermento come non mai.

Come in tutte le ondate musicali che contraddistinguono le generazioni, può essere divisa in due parti: chi lo fa, detto tra noi, per seguire la moda e chi invece lo fa per passione. Ci sono dei ragazzi che hanno dai 16 ai 19 anni. Non scrivono come facevamo noi. Sono avanti. Mi sono ritrovato a 23 anni a frequentare ragazzi più giovani di me. Si va in piazza: un amico fa beatbox, un altro porta il ghetto blaster e si fa musica insieme.

Se ne fottono, insomma.

Alla loro età, però, per me era impensabile. Qualcosa è cambiato.

Domanda da profano ignorante dell’hip-hop: l’uso della lingua italiana. Molto spesso mi sembra che, salvo rare eccezioni, il rap sia in mano a semianalfabeti. Ho apprezzato il tuo tentativo di ricerca di uno stile più alto rispetto ai canoni del genere.

Se per canoni del genere intendi l’hip-hop mainstream che senti alla radio, allora c’è molta merda. Esiste, invece, un filone capitanato da gente come Ghemon, Bassi Maestro, Mecna (quello della pubblicità del cornetto ndr) o, addirittura, il Neffa dei tempi d’oro: questi ed altri hanno dato e danno maggiore qualità, se così possiamo definirla, ai testi. Questo non significa, però, che non si possa trovare della poesia anche nel rap del ghetto.

Nel disco è presente qualcosa di molto simile a un reading. Esageriamo, allora: ti senti uno scrittore prestato al rap?

Di certo posso autodefinirmi tale. Esageriamo, ma qualcosa di vero c’è. Non ignoro, anzi conosco molto bene, la scuola cantautoriale italiana: De André su tutti. È lui, davvero, la mia prima influenza. In più, ho sempre scritto, fin da ragazzino: racconti, poesie, diari. Il rap è il modo che trovo più congeniale per unire le mie due anime: scrittura e musica. Nel tempo di una battuta puoi dire tanto.

Questo ti permette di essere vero, autentico.

È fondamentale, soprattutto nel rap. Per questo motivo, ad esempio, non mi vedrai mai in atteggiamenti autocelebrativi tipici del genere né, tantomeno, nei miei testi troverai storie di ghetto, pistole o, che so, degrado familiare.

Anche perché la tua famiglia ti ha sempre incoraggiato.

Soprattutto mio padre, che è stato ed è ancora un ottimo Dj. Suona ancora, spesso anche con me.

Metti molto di te nei tuoi pezzi e in maniera molto esplicita: hai vinto del tutto la paura dell’esposizione del privato al pubblico?

Voglio comunicare e non posso farlo indossando una maschera. In Solo Andata ho messo me stesso, senza filtri. Non ho paura di affrontare alcun tema. Non ho paura di espormi, non farei musica altrimenti.

(Mattia si alza per andare in bagno. Ci mette un po’, ndr).

I progetti futuri.

Promuoverò il disco, ovviamente. Il 2 agosto farò un live di presentazione ad Alghero alla Baia dei Venti, con  Bill Proud (Elias) ai piatti e Sinapsi (Enrico) in apertura. Poi qualche data in giro per la Sardegna. Allargando ancora di più gli orizzonti, mi piacerebbe tantissimo mettere su una band, con la quale suonare questo genere e ampliare ulteriormente le mie possibilità creative.

Alla fine, nonostante Facebook e Youtube, suonare live rimane il modo migliore per far conoscere la propria musica.

Certo. L’intenzione, però, è anche quella di girare qualche video. Insomma, fare.

Tutti vogliono fare. Pochi fanno.

È la nostra generazione. Penso che ci sentiamo in qualche modo obbligati a fare meglio dei nostri genitori. Loro hanno il merito di aver creato, per noi e per loro, delle solide basi.

Noi, invece, cerchiamo di essere tutti belli, unici, speciali, inimitabili.

Questo è il mito che cerco di sfatare. La ricerca dell’originalità è il fenomeno più massificato che esista. In più, sforzandoci di essere qualcuno o qualcosa, andiamo a ricadere, per forza di cosa, negli stereotipi. Calmiamoci tutti, per un attimo, e accettiamoci per quello che siamo.

Bene. Grazie.

Grazie a te.

Mi alzo per pagare: aveva già fatto lui, col vecchio trucco dell’andare in bagno. Ecco perché ci metteva così tanto. Simpatico volpone, il rapper “normale” Mattia Uldanck: che studia all’università, che ha già una laurea, che non veste hip-hop, che non ha pseudonimo, che ha una famiglia che lo incoraggia, che è ottimista, che al bar paga lui (ti aspetto al varco), che crede nella nostra generazione, che mi saluta con un abbraccio. Vuoi vedere che tanto normale non è?

Ignazio Caruso, 30 Luglio 2014