Gay Pride: dai moti di Stonewall a quelli di Alghero

Dove, come e quando tutto ha avuto inizio

Sono le due di notte del 28 giugno 1969, a Manhattan, e otto agenti del primo distretto sono barricati in un bar di Christopher Street, nel Greenwich Village. L’ispettore Seymour Pine e i suoi uomini si guardano l’un l’altro, atterriti, chiedendosi come diavolo abbiano fatto a ritrovarsi come topi in trappola in quella tana di senzadio. E mentre si guardano, un rumore sordo scandisce i lunghi istanti che li separano dall’arrivo dei rinforzi; proviene dalla porta del locale, sulla quale qualcuno sta scagliando, a mo’ di ariete, un parchimetro appena sradicato dal marciapiede posto dall’altra parte della strada. Che bizzarra arma d’assedio. Che bizzarri assedianti. Zombie? Magari. Quei maledetti non sono morti, sono vivi, più vivi che mai. E sono molto, molto incazzati. Gay, lesbiche, drag queen, transgender. Ci sono tutti. E sono tanti, circa duemila. Gli otto agenti del primo distretto se ne sono accorti: per questo hanno pensato che sprangarsi dentro al numero 53 di Christopher Street, tra la West 4th Street e Waverly Place, nel Greenwich Village, a New York, sarebbe stato comunque meglio che essere là fuori in balìa di quei depravati. Anche se quello era l’indirizzo dello Stonewall Inn, un bar gay che quella sera sarebbe passato alla storia come il bar gay. Grazie, soprattutto, a lei.

Sylvia Rivera nasce in un taxi a New York il 2 luglio 1951. Si chiama Ray, perché è un maschio, almeno all’inizio della sua storia. Un maschio sfortunato. Il padre lo abbandona appena nato, la madre si suicida tre anni dopo. Le premesse non sono le migliori. Viene allevato dalla nonna venezuelana, la quale si accorge subito, e con dispiacere, che Ray non è poi così maschio. Preferisce chiamarsi Sylvia. All’età di 11 anni, Sylvia comincia a vivere per strada e a frequentare la comunità di drag queen di New York. All’età di 11 anni, Sylvia poteva diventare o una prostituta o una tossica o un’icona del movimento omosessuale. Diventerà tutte e tre le cose per poi morire il 19 febbraio del 2002, sempre a New York, per un tumore al fegato, dopo essere sopravvissuta a vari tentativi di suicidio, ma soprattutto dopo tante battaglie. La prima, quella sera.

Il 28 giugno del 1969, Sylvia non ha ancora compiuto 18 anni. Come spesso le capita, anche quella sera sta ballando al 53 di Christopher Street, allo Stonewall Inn. È una sera calda e afosa. La musica è alta e tutti si divertono, come è ovvio che accada nel 1969. Poi, all’improvviso, le sirene. Niente di strano, ordinaria amministrazione. Negli anni ’60, le incursioni della polizia nei bar gay sono all’ordine del giorno. Di solito, i presenti vengono identificati, schedati, magari arrestati, a volte umiliati, nel peggiore dei casi menati e violentati; ma quella notte, qualcosa sarebbe andato storto. Attorno all’una e venti, gli otto agenti capitanati dall’ispettore Pine irrompono nel locale; solo uno di loro indossa l’uniforme. Gli avventori dello Stonewall Inn sanno benissimo che, per evitare grane, la cosa migliore da fare durante una retata è darsela a gambe finché si ha fiato. Così fanno in molti. Alcuni – quelli senza documenti e quelli “vestiti con abiti del sesso opposto” – vengono presi e portati fuori, trascinati verso i furgoni della polizia. Sylvia è lì, tra la folla, che osserva l’ennesimo sopruso, l’ennesima umiliazione. Poi, qualcuno non ce la fa più. Poi, qualcuno inizia a lanciare nichelini contro la polizia. Poi, la rivoluzione. Il gesto. La leggenda.

Urlano “We are everywhere!”, lanciano molotov, sradicano un parchimetro

Sylvia impugna una bottiglia e la lancia con forza verso un poliziotto. Come un naufrago, che mette dentro una bottiglia la sua disperazione e la lancia verso l’oceano, Sylvia scaglia la sua esasperazione, la sua ribellione verso quel poliziotto e verso la società tutta. I più romantici tramandano la versione del lancio di un tacco a spillo, ma poco importa. Qualsiasi cosa fosse, era solo l’inizio. D’altronde, dopo il ’68, era inevitabile. In pochi minuti, l’ispettore Pine e i suoi poveri uomini passano da predatori a prede. Si barricano, ironia della sorte, proprio in quel luogo che volevano distruggere. Fuori, il delirio. Gay, lesbiche, trans o qualsiasi cosa siano, sono tutti ribelli. Urlano “We are everywhere!”, lanciano molotov, sradicano un parchimetro. Quel parchimetro.

L’ispettore Pine chiede insistentemente rinforzi e alla fine arrivano. Dopo 45 minuti di attesa snervante, gli uomini della Tactical Patrol Force sono sul posto. Sono quelli addestrati per reprimere i dimostranti contro la Guerra in Vietnam. Si trovano davanti uno schieramento di drag queen che li tempesta di pietre e oggetti vari. Cantano

We are the Stonewall girls
We wear our hair in curls
We wear no underwear
We show our pubic hair
We wear our dungarees
Above our nelly knees!

Gli scontri continueranno fino alle quattro del mattino, e la Tactical Patrol Force non ne uscirà molto bene. La notte successiva, si ripeteranno. E poi, un’altra notte ancora. A luglio, nascerà il Gay Liberation Front, proprio a New York. Organizzazioni simili si formeranno in tutto il mondo, anche in Italia. L’anno successivo, il GLF organizzerà una marcia dal Greenwich Village a Central Park, in commemorazione dei moti di Stonewall. Vi parteciperanno circa 10 mila persone. In Italia, la prima manifestazione pubblica per i diritti omosessuali andrà in scena il 5 aprile del 1972, a Sanremo. Si protesterà contro il “Congresso internazionale sulle devianze sessuali” organizzato dal Centro italiano di sessuologia, di forte ispirazione cattolica. Nel 1994, a Roma, si svolgerà il primo Gay Pride nazionale ufficiale.

E Sylvia Rivera, che si chiamava Ray ed era un maschio, ma non poi così tanto, e che lanciò quella bottiglia contro la polizia? Che ne è stato di lei? Nel 1970 ha fondato lo STAR (Street Transvestite Action Revolutionaries), un’organizzazione dedicata all’aiuto dei transessuali senzatetto. Non è durata molto. Negli anni ’80 si è trasferita a Tarrytown, dove ha organizzato spettacoli drag. È sempre rimasta in contatto col movimento gay, ma è stata spesso delusa dall’emarginazione di cui sono stati vittime i transgender, anche all’interno dell’ambiente omosessuale. La droga non l’ha mai abbandonata, anche quando, negli anni ’90, è tornata a New York, in mezzo alla strada. Nel 1995 ha provato a suicidarsi, e non è stato un tentativo isolato. Si è ripresa. Nel 2000 ha rimesso in piedi lo STAR. Quando gli hanno chiesto di quella bottiglia, ha risposto:

«Sono fiera di me stessa per essere stata lì, quella notte. Se avessi perso quel momento, non me lo sarei mai perdonato, perché in quel momento ho visto il mondo cambiare. Per me e per la mia gente».

Oggi, non lontano, c’è chi ancora non ha imparato la lezione. Sylvia è morta il 19 febbraio 2002, per un tumore al fegato, come abbiamo già detto.

 

Tratto da ilcarusoblog.com

Ignazio Caruso, 14 Giugno 2014